Diciotto ore
Siamo nel piazzale da dove partirà il nostro autobus. Non riusciamo a credere che sia proprio quello che abbiamo davanti. Fatiscente è un complimento; sulla fiancata gialla c'è scritto Super Express; la vernice è scrostata, i pneumatici sono lisci e non ci sono i finestrini, o meglio non si possono chiudere perché senza vetri. Non solo, una volta a bordo ci accorgiamo che i sedili non sono reclinabili. Troviamo posto e ci lasciamo andare alle prossime diciotto ore di avventura indiana.
Intorno a noi, neanche a dirlo, ci sono soltanto indiani; nessun turista né occidentale né orientale. Finalmente sto viaggiando come loro, mangiando il loro cibo, dormendo negli alberghi da loro frequentati e non in strutture create per accogliere turisti da tour operator. Sono contenta; il disagio di stare seduta su una dura panca che non si reclina passa in secondo piano.
Ovviamente siamo osservati tanto anche noi dai nostri compagni di viaggio. Si chiederanno cosa ci fanno due così su un autobus che impiegherà diciotto ore per percorrere poco più di cinquecento chilometri. Non solo, al termine della corsa ci accorgeremo di essere stati gli unici ad aver percorso tutta la tratta da Thiruvananthapuram a Mangalore, tutti gli altri sono scesi o saliti alle fermate intermedie e, credetemi, sono state davvero tante!
Non siamo in viaggio neanche da un'ora che già facciamo la prima sosta. Oltre all'autista c'è una specie di assistente-bigliettaio che gli siede di fianco; notiamo subito che ci guarda spesso quasi per controllare. Quando scendiamo la scaletta, ci ferma e ci ripete accuratamente quanto durerà la sosta e a che ora ripartirà l'autobus. Al momento di risalire, non appena tutti hanno ripreso il proprio posto, con lo sguardo cerca noi. Forse è soltanto un'impressione ma credo che il bigliettaio si senta responsabile, considerandoci due turisti un po' disgraziati per essere finiti lì.
Stiamo percorrendo una strada terribile, tutta curve a strapiombo, stretta; ogni tanto incrociamo camion ribaltati con ancora le ruote in movimento e le luci accese. Sembra un far west! A un semaforo il nostro autista rallenta per fermarsi e urta una motocicletta ferma al rosso. Accanto c'è un poliziotto che se la prende con il povero motociclista che sta ancora rialzando il suo mezzo da terra: doveva spostarsi perché arrivava un autobus, arrivava un veicolo più grande. In India il codice della strada è regolato dalla legge del più grosso; ne consegue che una moto deve dare la precedenza a un autobus, anche spostarsi se è d'intralcio. Immaginatevi quanto conta il pedone in questa gerarchia. Attraversare le strade delle grandi metropoli indiane è come giocare alla roulette russa: prendi fiato e vai, tanto nessuno si fermerà a darti la precedenza.
«Non ci posso credere! Si ferma un'altra volta!» esclama Graziano incredulo.
«Meno male, devo fare pipì» dico ridendo.
Alla discesa solite raccomandazioni dal bigliettaio che stavolta ci illustra anche com'è fatta la zona ristoro della fermata in questione. Mi dirigo dritta in bagno, entro nel primo ed esco disgustata. C'è la turca anche qui e, proprio al centro, un grosso bisognino che l'artefice non ha provveduto a far scivolare nello scarico. Nel secondo e terzo bagno è anche peggio; mi trovo quindi a dover scegliere il bagno meno sporco fra lo sporco. E pensare che a indicare la toilette femminile c'è una bellissima immagine di donna dipinta sul muro.
Sembra incredibile ma siamo arrivati. L'autista, sempre lo stesso da diciotto ore, imbocca l'entrata della stazione degli autobus di Mangalore abbastanza in orario, anche se nessuno ci aveva detto precisamente a che ora saremmo arrivati. Dopo aver salutato praticamente tutti i nostri compagni di viaggio e naturalmente il bigliettaio, contento di averci portato a destinazione sani e salvi, scendiamo.
C'è il sole, ho voglia di lavarmi la faccia e mi dirigo in bagno. Viaggiare senza i finestrini per le strade sterrate dell'India ti regala la sindone del tuo volto sull'asciugamano. Capisci allora che devi lavartelo ancora e ancora. Intorno a me ci sono tantissime donne, ragazze e bambine tutte intente a lavarsi i denti. Mi colpiscono i gesti eleganti e regali che riescono a compiere in uno squallido gabinetto pubblico di una stazione degli autobus. Sembrano nel bagno della corte del Maraja, con i loro variopinti sari indosso. Indubbiamente quella peggio vestita e col volto più segnato dal viaggio sono io; d'altronde l'unica ad aver percorso tutta la tratta di diciotto ore. Alcune di loro sono montate appena fuori dal centro: sono studentesse, a giudicare dai libri che portano in borsa. Una alla volta mi sfilano davanti uscendo dal bagno, rimango inebriata dal profumo dei loro capelli. Niente di trascendentale, solo ammirazione verso il mio stesso sesso, verso tanto esotismo.
Raggiungo Graziano seduto su una panchina con in mano un asciugamano di cui non si immagina più il colore originale.
«Sei riuscito a lavarti la faccia? O sei rimasto ucciso dalle polveri sottili che si sono sprigionate mentre strofinavi?»
«Mamma mia come sono sporco. Voglio fare una doccia!»
«Beh, dovrai aspettare ancora fino a stasera; a proposito, a che ora abbiamo il treno?»
Così dicendo ci mettiamo a controllare orari e biglietti; facciamo un piccolo inventario dei nostri bagagli; meditiamo sull'assegno della banca di Singapore e Shanghai, soprattutto su dove poterlo cambiare. Il treno parte quasi alle 15:00, perciò abbiamo un po' di tempo per visitare la città.
Facciamo un giro senza una meta precisa, decisi a vedere solo quello che ci troviamo davanti andando verso la stazione. A differenza della tratta intermedia a Bangalore, anche se malaticcia, adesso siamo stanchi e non abbiamo chiuso occhio per tutta la notte. Decidiamo quindi di entrare nella stazione e rilassarci da qualche parte mentre attendiamo il treno.
All'interno è tranquillo e ci sono solo poche persone in attesa; qualcuno alla biglietteria; facchini che caricano e scaricano merci; pecore che brucano l'erba direttamente fra i binari. Troviamo una panchina e tiriamo fuori le carte; non avevamo ancora avuto nemmeno il tempo di ricordarci che ce l'eravamo portate dietro. Giochiamo a Ramino e dopo un po' siamo accerchiati da decine di curiosi che hanno smesso di lavorare, comprare biglietti e persino prendere il treno per guardare noi e il nostro gioco.
Si alternano alle nostre spalle per vedere a entrambi le carte, cercando di capire le regole. Osservano le mosse con molta attenzione; qualcuno inizia a intuire il gioco non appena mettiamo giù scale e tris. Graziano, che di solito mi straccia sempre, stavolta perde miseramente una partita dietro l'altra, suscitando ilarità fra i nostri spettatori che, neanche a farlo apposta, sono tutti di sesso maschile. Finalmente arriva il treno, salutiamo il nostro pubblico, anche se a dire il vero parecchi se ne sono già andati, saliamo e cerchiamo i nostri posti. Non ricordo altro a parte aver incatenato gli zaini sotto i sedili, essermi seduta e aver chiuso gli occhi.
Tratto da L'India in Sleeper Class
Commenti
Domani pubblico le mie: se vuoi passare a votare la tua preferita, la vedrai comparire insieme a una delle tue foto nel post riassuntivo del 10 febbraio
un abbraccio
Monica
Ti assicuro che mi è venuta l'angoscia leggendo la storia dell'agenzia, sembrava a me di essere sul punto di perdere l'aereo.
Complimenti
Ciao
Norma
comunque se sono qui a raccontarvelo vuol dire che alla fine è andata bene!!
E' bello per un'aspirante scrittrice riuscire a trasmettere emozioni...