I miei viaggi sono pieni di giornate a caso, di momenti che nascono da soli: nessuna pianificazione, solo tanta casualità. Sono le giornate che preferisco e quelle che, una volta tornata a casa, ricordo più volentieri.
Come questa che sto per raccontarvi, il giorno dopo la nostra escursione tra i cimiteri di Tana Toraja, quando usciamo a piedi giusto per fare un giro e finiamo a Nangalla, un villaggio che non si fila nessuno. Noi invece vogliamo proprio andare lì, e per questo prendiamo un bemo da Rantepao per Palopo ma scendiamo dopo poco perché in realtà non va per niente a Palopo ma al capolinea di un paese accanto, poi da lì dovrebbe passarne un altro. Ci mettiamo ad aspettare sul lato della strada, prima del bemo si fermano: macchine, camioncini, motorini e carretti per venderci un passaggio, che gentilmente rifiutiamo sempre, ignari di quanto invece ci serviranno poi...
Finalmente arriva il bemo per Palopo; scendiamo qualche chilometro prima per poi proseguire a piedi per Nangalla. E sì perché, credo di avervelo già detto, i posti che ci piacciono di più, di solito non sono mai quelli meglio collegati.
“Il villaggio di Nangalla è famoso per una casa tongkonan molto grande e per una schiera di 14 magazzini per il riso con decorazioni che raffigurano donne dai tratti occidentali, automobili, soldati armati...” recita la guida. Boh, di tutte queste cose noi non abbiamo visto nulla. Solo i 14 magazzini.
L’autista del bemo ci indica un sentiero un po’ in salita che gira dietro una collina. Proseguiamo finché davanti a noi si apre una piccola valle circondata dalle tipiche case tongkonan con i tetti a corna di bufalo che fanno capolino dalle alture circostanti, dove probabilmente scorgiamo quella che dovrebbe essere la più grande della zona.
E’ bellissimo, non c’è nessuno. Sicuramente qui, tra queste montagne, ci saranno tombe recenti, tanti luoghi di sepoltura dove i Toraja portano i loro morti quando si sentono pronti al distacco, secondo quello che è il culto dei morti più bizzarro conosciuto finora.
Teli azzurri con chicchi di riso messi a essiccare occupano i prati intorno alle case. Continuiamo a seguire la strada sperando che non arrivi qualcuno a dirci di andar via. I toraja sono molto gelosi delle loro tradizioni, delle loro case e delle loro tombe.
Ci togliamo ogni dubbio quando le tongkonan si fanno più fitte e finiamo davanti a un magazzino in costruzione con alcuni giovani operai che ci salutano, fanno cenno di avvicinarci, si siedono sulla panca fuori e decidono così di prendersi una pausa. Noi, loro, una tanica in plastica di vino di palma. Salute!
Riprendiamo il giro passando ancora accanto a case e stese di teli azzurri e chicchi di riso, fino ad arrivare al magazzino dove le spighe raccolte vengono battute da una macchina, probabilmente l’unica del villaggio: foto di gruppo anche lì.
Giungiamo alla conclusione che ai toraja non proprio abituati ad avere turisti intorno, non dispiace averne qualcuno di tanto in tanto. E poi dopo aver visto il pupazzo di spighe di riso come potrei resistere!
Davanti a noi la valle si apre e i prati diventano risaie piene d’acqua coi bufali che ci fanno il bagno dentro. Alcune tongkonan più piccole sono in realtà magazzini per lo stoccaggio del riso, ben sollevate da terra per limitare l’ingresso di insetti e animali.
Il giro ormai è finito, la strada fa un anello e riporta sulla via principale, quella dove abbiamo lasciato il nostro bemo. Ci mettiamo dalla parte opposta e aspettiamo che ne ripassi uno che torna a Rantepao.
Passa il tempo, ma del bemo neanche l’ombra. Iniziamo a camminare, già con quella consapevolezza - che però dovevamo mascherare ai nostri figli - di dovercela fare a piedi. Non passa proprio nessuno, né una macchina, né un motorino, né un carretto di quelli che abbiamo rifiutato all’andata. Nulla. E allora te lo domandi perché sei venuta qui, in questo posto sperduto, quasi a disturbare la quotidianità di chi vorrebbe restare al di fuori delle escursioni per i turisti.
Finalmente appare un pick up amaranto che accosta non appena ci vede. “Rantepao?”, e ci fa cenno di salire. Dentro ci sono altre tre persone oltre al guidatore che scopriamo essere un privato che siccome aveva da andare in paese raccoglie la gente lungo la strada per dividere il viaggio. Tra il freno a mano e i sedili posteriori ha messo uno sgabello di plastica per ricavare un posto in più. Ci chiede una cifra più che onesta per portarci proprio in paese, senza bisogno di dover cambiare come all’andata. Lungo la strada ci fa ascoltare una canzone neo melodica tutta dedicata a Rantepao, l’unica parola che capiamo e che praticamente in loop fa tutto il ritornello. Ci siamo complimentati come se fosse Nel Blu Dipinto di Blu, perché per loro lo è.
Quando ci salutiamo avrei voluto dirgli “no ti prego, portami a cena a casa tua”. Avrei voluto che questa giornata non finisse mai. Camminare per Nangalla è stata una cosa bellissima, la giornata splendida, il sole alto, l’aria pulita. Senza pensieri, senza una meta, ci riappropriamo del tempo e del piacere di trascorrerlo anche facendo nulla: ecco la risposta alla domanda di poc'anzi.
Ci consoliamo mangiando il Roti Bakar, un dolce tipo il Ropongi mangiato a Bali che avevo già visto a Yogyakarta due anni prima.
Tutto perfetto, resterei nella terra dei Toraja ancora per qualche giorno ma ormai che siamo arrivati fin qui decidiamo di proseguire ancora verso nord. Occhio e croce altri 3 giorni di viaggio per raggiungere la prossima meta.
Iniziamo domani con 10 ore di autobus, tutte di giorno perché a causa della condizione delle strade di notte è impossibile viaggiare. Cosa che purtroppo sperimenteremo lo stesso perché di ore ce ne metteremo 14 per raggiungere niente po’ po’ di meno che Tentena.