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A spasso per Hell Ville

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Dettagli
Scritto da Francesca Cioccoloni
Categoria: Madagascar
Visite: 8057

Valutazione attuale: 5 / 5

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Vediamo se ricordo ancora come si ferma un risciò. Ah già! Basta guardare verso la strada che poi ci pensano loro a farti un cenno, anche se sono già occupati ma infondo che fa, sono in Madagascar da sola e dopo anni di viaggi insieme alla mia famiglia, devo farci un po' l'abitudine.

Per essere precisi sono a Nosy Be, un'isola a nord della Grande Terra, come piace dire alla gente del posto. Contratto il prezzo come vuole la tradizione e la prudenza: mai salire su un mezzo sprovvisto di tassametro senza accordarsi prima.

Mi siedo a fianco di una ragazza malgascia e via, direzione Hell Ville, che col diavolo ha poco a che fare ma che porta questo nome perché è così che si chiamava un certo ammiraglio francese...

La terra rossa e grassa cede il passo a una lingua di asfalto farcita di quel poco di buche che basta a ricordarti che sei in Africa. Il vento caldo che su un risciò soffia da tutte le direzioni fa il resto. La mia compagna di viaggio scende quasi subito in prossimità di una benzinaio; il mezzo è a secco - quando mai - solo che qui il motivo è molto più evidente che in altre parti del mondo dove ho preso questo strano trabiccolo che adoro: la benzina costa più o meno come in Italia, ma di certo i salari non sono gli stessi.

 

 

Mentre il mio autista fa il pieno si avvicina un poliziotto che chiede i documenti prima a lui, poi a me. Dopo aver esitato un po' guardando il timbro di ingresso nel paese, ecco che mi restituisce il passaporto e un sorriso: “Italiana?”

“Sì”, rispondo ricambiando il sorriso e via, un colpo all'acceleratore e ci lasciamo il benzinaio e il poliziotto alle spalle.

Lungo la strada una sequenza ininterrotta di capanne di legno dal tetto di paglia sfila insieme al verde scintillante della vegetazione. Gruppi di donne circondate da bambini si danno appuntamento ogni giorno lungo queste strade, fuori dalle loro capanne, per vivere la giornata tra un bucato al fiume e un pentolone di riso sul fuoco. La vita qui si svolge tutti insieme, nell'attesa che succeda qualcosa che farà di una giornata come tante, l'occasione per salutare festosi una turista che passa in risciò.

 

 

Curva dopo curva ci si avvicina alla città e le capanne di legno cedono il passo a quelle di mattoni che ospitano dai piccoli bazar dove si vende un po' di tutto, alle officine che riparano questo e quello perché qui, come in India e in altri paesi che ho visitato, non si butta via nulla, tutto può essere riparato con l'ingegno. Se ti si rompe la moto, aggiustiamo il danno. In Italia, se ti si rompe la moto, ordiniamo il pezzo. Sono quei 30 anni circa di differenza tra loro e noi, quando aggiustavamo ancora le cose.

 

 

Poi il risciò svolta lungo una strada che scende pian piano verso il centro del paese. Locande, alberghi, bancarelle e negozi veri e propri si fanno sempre più fitti e sui marciapiedi passano da una parte all'altra ragazze in minigonna o tuniche colorate, giovani in t-shirt dagli improbabili marchi famosi taroccati, donne con in mano il sacchetto della spesa.

“Içi?”, è la voce del riscioman che nel frattempo ha raggiunto la piazza principale.

Davanti a me il mercato e tre o quattro strade che prendono direzioni opposte. Sto per un po' in mezzo a quel caos, rifiutando a ogni respiro di quell'aria densa l'offerta per un taxi finché non passa il messaggio che sono appena arrivata.

 

 

Cerco di fare un programma e di decidere da dove iniziare ma alla fine faccio come mio solito: mi incammino da una parte e via. Dapprima ripercorro un tratto della strada da dove sono venuta e così, all'improvviso, come un vero colpo di fulmine vedo qualcosa che mi fa venire gli occhi a cuore. Prima però devo fare una premessa: ieri sera in una Tv francese ho visto uno special su Pondicherry, un'ex colonia francese nel sud dell'India che ho visitato qualche anno fa e che ha ispirato il titolo del mio ultimo libro. Così, dopo essere salita su un risciò che ha gli stessi identici colori di quelli indiani, mi trovo davanti a edifici tipici del comune periodo di colonialismo francese che spuntano tra costruzioni più nuove. Per un attimo mi sono sentita lontana chilometri...

 

 

 

Passeggio tra i sorrisi e gli sguardi curiosi dei bambini; ogni uscio ha davanti a sé una piccola esposizione di merce, dalla frutta e verdura agli adattatori della corrente, a vassoi unti di prodotti locali da mangiare, e vestiti palesemente smessi ma che qui troveranno nuovi proprietari. La gente vende quello che ha, e anche qui come in Asia è facile riconosce le vetrine improvvisate fatte di un pezzo di legno appoggiato sui sassi, con di fianco una mamma e più in là un bimbo che dorme disteso su un cartone.

 

 

Mi incanto a vedere con che cura hanno sistemato le locandine dei film di Bollywood e senza che me ne accorga sono dentro il mercato, unica turista.

 

 

 

 

Attraversando banchi che espongono spezie e salse potenti come la pâte de piment, ortaggi sconosciuti o più noti come la manioca, riso e legumi simili a questo o a quello ma in fondo mai visti prima, arrivo davanti a una bancarella che vende articoli che mai avrei creduto qualcuno potesse voler comprare: bottiglie di plastica vuote. Disposte a piramide e divise fra grandi e piccole, tante bottiglie della solita marca fanno bella mostra di sé: ciò che prima ha dissetato qualche turista, adesso è in vendita più in là con dentro salse o succhi di frutta, prima però è su questo banco che vuote e pulite qualcuno ha comprato.

 

 

 

 

L'esposizione prosegue con l'immancabile pesce secco, i granchi di palude ricoperti di terra, la carne, tutte merci fresche, non fatevi impressionare dalle mosche. Ancora banchi di frutta e verdura trovano posto all'aperto sul retro; qualche rigagnolo di acqua sospetta e fogne coperte un po' così e si torna in strada.

 

 

 

Continuo il mio giro seguendo la tipica struttura a griglia dal sapore francese e mi ritrovo presto circondata da una miriade di scolari che, nelle loro divise, stanno tornando a casa. Ci sarebbe di che farsi venire i crampi alle mani a furia di fotografare ma a volte il posto migliore della macchina fotografica è a penzoloni sul collo, mentre tu assapori tutto quello che ti passa davanti in una fotografia che rimarrà per sempre impressa nella mente fino a trovare pace in un racconto.

 

 

Dopo aver aspettato un tempo biblico per un pesce arrosto con le patatine, in un locale gestito da un simpatico ragazzo del posto che mi ha fatto sentire come a casa, decido che la mia avventura in città per oggi è finita e di tornare in albergo. Peccato che l'aria di nuovo in faccia della corsa in risciò risvegli in me la voglia di andare ancora un po' in giro, così, senza una meta precisa.

 

 

Però una decisione va presa e mi faccio portare a Ambatoloaka, una località che affaccia sulla baia accanto a quella del mio albergo. Pago e scendo dal risciò come se sapessi perfettamente dove andare e inizio a camminare lungo una via tutta bar, ristoranti e piccole pensioni. Presto la passeggiata finisce ma io non ho ancora voglia di rientrare.

Decido di andare a vedere la spiaggia che però mi lascia, almeno nel primo tratto, molto delusa per la sporcizia che nessuno ha la cura di togliere. Poi le cose migliorano e allora decido di arrivare fino alla fine della baia, dietro il promontorio c'è l'albergo lo so, perciò decido di attraversarlo e di tornare a piedi.

 

 

Salgo lungo una stradina orlata di piante e fiori e silenzio. Passo davanti a una casa in costruzione; un bimbo corre da una parte all'altra felice che ancora non ci siano le porte, la mamma lo segue in un abbraccio color dell'ebano, mentre il papà francese segue i lavori di quella che sarà probabilmente la casa più bella della zona.

 

 

Persa nei miei pensieri arrivo al punto di non sapere più da che parte andare e, praticamente dal nulla, spunta un ragazzino che mi fa cenno di seguirlo e mi indica la strada, così, senza esitare e senza chiedere niente in cambio, mi dice come proseguire mentre scompare tra le capanne di un piccolo insediamento.

 

 

Torno indietro mio malgrado quando mi accorgo che le infradito mi si impantanano sempre di più e un fiumiciattolo fa capolino tra le frasche: decido che no, non lo voglio attraversare senza nessuno che sappia dirmi quanto può essere profondo.

Di nuovo gruppi di donne con ceste enormi di raccolto in equilibrio sulla testa, bambini che posano seri e poi scoppiano a ridere quando si rivedono nello schermo della macchina fotografica, si alternano a giovani pastori di zebù che radunano gli animali per rientrare alle stalle, e altri che vanno a casa dopo una giornata di lavoro nei campi.

 

 

Il sole ha iniziato a tuffarsi in mare e le ragazze del posto escono a passeggio per vedere magari quel tipo che piace tanto, e scambiarsi qualche sguardo al sapore di intesa. Anche qui c'è lo struscio serale, anche qui si fanno le vasche...

Per tutta questa strada, per tutta questa giornata, non ho fatto altro che incontrare facce sorridenti, ricevere saluti e aiuti quando ne avevo bisogno; mai, nemmeno per un secondo mi sono sentita fuori luogo.

Con un milione di segni del sole in più addosso, tra gli spallacci dello zaino, le spalline della canotta e la tracolla della macchina fotografica; tra i graffi sulle gambe per i fuori pista nei campi che mi sono concessa per risparmiare qualche passo, mi sento felice come non mai per aver gettato il cuore oltre l'ostacolo anche questa volta. Perché credetemi, ne vale sempre la pena.

 

 

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