Sukhothai si specchia nelle pozzanghere d'acqua di una pioggia appena caduta. Il nostro albergo è proprio sulla strada principale che collega la città nuova con in Parco Storico, con le rovine di quello che veniva definito il Regno della Felicità Nascente.
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Ormai è sera e la città bagnata ci aspetta appena oltre in ponte sul fiume Mae Nam Yom; facciamo due passi e ceniamo in un posto come un altro, con accanto una famiglia francese e dei bambini poco più grandi dei nostri, che scompariranno poi dietro la porta di una guest house di quelle modeste, da “zaino in spalla” per intendersi. Siamo noi, di un'altra lingua ma noi. E come sempre mi piace ritrovarmi in giro...
La simpatica e sempre sempre sorridente figlia del proprietario ci offre le biciclette dell'albergo; qui non c'è neanche stato bisogno di dirlo come ad Ayutthaya: ci danno subito quelle con il sedile posteriore imbottito. Pezzo di cartone infilato tra portapacchi e raggi e via, si parte prendendo esattamente la direzione opposta a quella per raggiungere il parco. Ripassiamo sul ponte della sera prima ma non ci dice proprio nulla. Non dice: «Ehi voi, ma dove state andando!?». Continuiamo a pedalare tra le macchine e gli incroci pieni di umanità finché non ci viene il dubbio che forse, un'occhiata alla cartina, andrebbe data. Ma, sempre forse, non lo vogliamo sapere noi per primi di essere due rimbambiti che sbagliano strada quando la strada è una sola e non c'è verso sbagliare.
Mentre pedaliamo fino a ripassare davanti all'albergo, mi tornano in mente le parole del proprietario che ci diceva di non andare alle rovine in bici perché troppo lontane. Che sarà mai! Proseguiamo sul ciglio di questo immenso e lunghissimo viale, attraversiamo l'incrocio da dove siamo arrivati la sera prima e, tutti speranzosi, puntiamo lo sguardo dritto davanti a noi, sperando di essere il primo a poter esclamare “terra!” alla vista dell'ingresso alle rovine.
Ma oggi deve essere qualche strana ricorrenza del viaggiatore che improvvisamente regredisce a uno mai uscito di casa e, rileggendo un po' più attentamente la guida, dissipiamo quelle nebbie mentali che ci avevano fatto intendere Sukhothai come Ayutthaya, ossia con un ponte di pochi metri a separare la città nuova da quella vecchia, mentre invece ci sono ben 12 km tra le due.
Intanto, pedala pedala, ci viene una gran fame e decidiamo di fermarci lungo la strada per vedere se si rimedia almeno una ciotola di riso. La città nuova e la sua scelta di ristoranti avvezzi ai turisti è ormai troppo lantana, mai quanto il parco però, ma questo lo scopriremo in seguito.
Una signora deliziosa ci fa accomodare sulla panca di legno di un tavolo di legno, con le posate chiuse in una scatola rosa di plastica. Il portico scricchiola sotto i nostri passi, di lato un canale di scolo invaso da immondizie non si addice a un ristorante, ma poi in fondo è sempre in posti come questo che ho mangiato il cibo più buono, e poi la fame è fame!
Senza nemmeno dover chiedere, la padrona porta subito ai bambini un piatto di riso con sopra una frittata, poi, non appena l'avranno finita, eccola pronta che gliene porta un'altra. Noi invece gustiamo una zuppa di non so cosa ma a volte è meglio non sapere, comunque molto buona.
Alessandro resta seduto soltanto il tempo necessario per mangiare, poi comincia a gironzolare tra i tavoli e sotto il banco dove viene preparato il cibo. Il ristorante non è altro che il davanti della casa della signora; da lì ad essere proprio dentro il passo è breve e Alessandro lo compie.
Non vorrei essere invadente ma devo andare a vedere che combina solo che, appena passo accanto al banco dove la vecchietta cucina, mi fa capire a gesti di lasciarlo stare e tornare a mangiare, ci pensa lei.
Nel frattempo Ale è arrivato davanti a un soprammobile speciale, un veliero tutto incelofanato in bella mostra, circondato da effigi del Buddha, foto dei nipotini, altarini con offerte votive e fiori profumati. Mi avvicino anch'io, il veliero è troppo delicato perché non attiri subito l'attenzione di mio figlio che non solo vuole toccarlo, ma anche togliergli quella bella plastica trasparente che lo avvolge per proteggerlo dalla polvere, ma che non lo proteggerà da lui. Intervengo ma niente: la signora è irremovibile e, quasi a muso duro, mi fa cenno di non preoccuparmi e di lasciarlo fare. Poi apre le braccia verso le foto dei suoi nipoti appese tutte intorno, come a farmi intendere che è abituata ad avere a che fare con dei bambini.
Ci prendo confidenza e così, un po' in inglese, un po' in “gestese” le chiedo quanta strada c'è per arrivare al Parco Storico. Lei scuote la testa e le mani indicando le biciclette, poi esce sulla strada e agita il braccio puntando verso la parte opposta della città. Gesto universale per dire: è lunga!
Torno al tavolo ormai rassegnata a dover fare dietrofront fino all'albergo, lasciare le bici e prendere un mezzo. Invece lei che fa, va a servire un ragazzo tutto impettito in una divisa verde dai profili neri e la scritta Samsung cucita sul petto. Mentre lo serve vedo una scintilla nei suoi occhi, una specie di Eureka le attraversa lo sguardo. Comincia a parlare col giovane che di rimando scuote la testa; lei alza la voce e lui l'agita più forte, finché la vecchietta tutta amorosa con mio figlio non dice ancora qualcosa, che secondo me doveva somigliare a un “se non li accompagni non ti darò più da mangiare!”.
Il tecnico sospira rassegnato, paga il suo pranzo take away, si gira verso di noi e ci fa cenno di seguirlo. La vecchietta sorride soddisfatta, poi si fionda ad abbracciare i bambini. Intanto carichiamo le bici sul cassone del pick-up e viviamo così un pezzetto di avventura alla Pechino Express anche noi, con i bambini che si divertono come pazzi.
Finalmente davanti al cancello del parco salutiamo con mani giunte e profondi inchini di testa il nostro, suo malgrado, salvatore; soprattutto dopo aver visto quanta strada in realtà mancava per arrivare fin qui.
Varchiamo i cancelli del Regno della Felicità Nascente con le nostre biciclette, senza domandarci più di tanto come avremmo fatto per tornare indietro. Adesso le rovine ci aspettano, ci penseremo dopo.